Ritratto della sorella Inger: 1884, olio su tela, cm 97x67, Oslo, Nasjonalgalleriet
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Nel ritratto di Inger, la
più giovane fra le sorelle di Edvard, l’influenza dei
maestri è palese. La ragazza è raffigurata di tre quarti,
con una mano abbandonata lungo il fianco, mentre l’altra pare
sfiorare un’invisibile superficie. La figura è mostrata in
leggera torsione, con la testa girata verso destra rispetto alle spalle
e gli occhi fissi su qualcosa che è al di fuori
dell’inquadratura. La scena acquista in tal modo una dimensione
dinamica e Inger sembra avanzare pensierosa, o essersi fermata soltanto
un attimo per poi riprendere a camminare. La suggestione è
potenziata dall’effetto di vibrazione della pellicola pittorica,
che pare tremolare sotto una luce mobile. Lo sfondo, con una scelta
caratteristica dei dipinti naturalisti, è nero, così come
neri sono l’abito elegante indossato dalla giovane donna e il
nastro che ne trattiene i capelli sciolti. La sobrietà
dell’abbigliamento è ravvivata dalla trasparenza dei polsi
e dalla spilla che ferma la scollatura. Il raffinato effetto di nero su
nero è spezzato dal rosa della carnagione, cui l’artista
conferisce in tal modo eccezionale risalto, portando a concentrare
l’attenzione dell’osservatore sul viso e sulle mani, cui
è affidata la psicologia della figura. Nonostante
l’espressione assorta, Inger appare vivace e decisa e il ritratto
diventa una via di mezzo tra un’immagine ufficiale e una
famigliare, in cui Munch raffigura la sorella con una delicata
partecipazione emotiva.
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Il mattino. Ragazza sul bordo del letto: 1884, olio su tela, cm 96,5x103,5, Bergen, Rasmus Meyers Samlinger, Bergen Kunstmuseum. |
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Nel dipinto qui
presentato, realizzato a Modum, Munch intendeva richiamare alla mente
le scene di Monet e Renoir, la loro intenzione di catturare
l’impressione di una determinata ora del giorno. La
luminosità del mattino, infatti, è il vero soggetto
dell’opera. Lo sguardo della ragazza è rivolto alla
finestra, e l’artista studia i riflessi luminosi sugli oggetti in
vetro, il vassoio, la tenda bianca, la testata del letto, i capelli e
la pelle della protagonista, che si tinge di sfumature rosse, bianche,
blu. Nell’accostamento delle due tinte, l’opera ricorda
forse Nana, realizzata nel 1877 da Manet. Anche nel trattamento della
superficie pittorica e nella scelta del soggetto si il dipinto si
riallaccia ai lavori del grande maestro francese, in bilico tra
realismo e impressionismo. Non a caso, Munch non rappresenta un
paesaggio, bensì una scena d’interni e la raffigurazione
della ragazza, che sospende il gesto di infilarsi una calza per
osservare con aria sognante la luminosità del sole mattutino,
riecheggia le opere naturaliste.
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Tete-à-tete: 1885, olio su tela, cm 66x76, Oslo, Munch-museet. |
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Il dipinto evoca esattamente
l’atmosfera dei caffè dove si svolgevano le lunghe e
animate discussioni politiche del gruppo. A un tavolo del locale, colti
in un’inquadratura ravvicinata, siedono un uomo e una donna. I
loro sguardi si incrociano e, piuttosto che in una conversazione,
sembrano impegnati in una schermaglia galante. L’uomo, con la
pipa in bocca, si sporge verso la compagna, che pare invece scostarsi,
ma volgere nello stesso tempo i propri occhi su di lui. Questi, come il
resto del viso, sono velati dal fumo azzurrognolo della pipa, che si
trasforma in una sorta di impalpabile quanto allusiva veletta. In primo
piano, appoggiato al tavolo, Munch ha raffigurato due bicchieri, vuoto
quello della donna, ancora mezzo pieno quello dell’uomo, forse
un’ironica allusione alla coppia. L’accordo cromatico
è ristretto a pochi colori, soprattutto alle gamme di blu e di
bruni. La pennellata è mobile, vivace e l’artista gioca
sul contrasto tra il volto in piena luce dell’uomo, la cui
schiena pare invece sfaldarsi nella semioscurità, e quello in
ombra della donna. Il trattamento trascurato dei dettagli, spesso
criticato dalla stampa tradizionalista, contribuisce efficacemente a
rendere l’atmosfera fumosa del locale. |
Ritratto della sorella Inger: 1892, olio su tela, cm 172x122,5, Oslo, Nasjonalgalleriet. |
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Inger è rappresentata a
figura intera; i suoi piedi sono però invisibili, coperti dalla
gonna, e il personaggio pare fluttuare sul pavimento. Ha una posa
rigidamente frontale. I capelli sono raccolti e la scriminatura li
divide in due perfette metà, richiamando la rigida verticale del
naso e del resto del corpo. Il vestito, dalla stoffa spessa e
impenetrabile, la copre fino al collo, lasciando vedere soltanto le
mani e il volto. Le mani sono allacciate e gli occhi si posano,
apparentemente assenti, sull’osservatore: la figura, immobile e
composta, sembra quasi una tavola di cera, priva di vita. Eppure lo
sguardo di Inger pare rivolgerci un muto interrogativo: la sua
espressione è magnetica, come se, l’artista ci obbligasse
a scrutare dentro noi stessi.
Ha una forma piatta, bidimensionale e le forme vengono chiuse dentro
precisi contorni, tanto che la figura di Inger appare una sagoma priva
di volume.soltanto per la parete di fondo è utilizzata una
pennellata irregolare, che la trasforma in una sorta di enorme,
inquietante ombra.
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Sera sul viale Karl Johan: 1892, olio su tela, cm 84,5x121, Bergen, , Rasmus Meyers Samlinger, Bergen Kunstmuseum. |
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Il quadro ha
un’intonazione lugubre: insieme alla sera, sulla strada sembra
essere calato un silenzio tombale e la folla si è trasformata in
un corteo spettrale. Le figure, ridotte a un’anonima, compatta
falange, paiono marciare direttamente su di noi. Il nero degli abiti
è contrapposto al pallore dei volti, su cui spiccano occhi
bianchi e dilatati, evidenziati dalle sopracciglia. Un piacevole rito
sociale evidenzia così una doppia natura, quella
dedll’alienazione e dello spaesamento dell’individuo. Anche
le case assumono un’apparenza minacciosa: sono le stesse
abitazioni dall’aspetto signorile dove si consuma il dramma
famigliare di casa di bambola di Ibsen, in cui la vitalità della
protagonista è schiacciata da convenzioni che appaiono prive di
senso. Dal simbolismo deriva la tensione che pervade il dipinto e
la stesura pittorica compendiaria, dall’apparenza non finita. |
Il grido: 1893, tempera su cartone, cm 83,5x66, Oslo, Munch-museet. |
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Si tratta dell’immagine
che meglio di qualunque altra condensa, con una potenza visiva
inaudita, il senso dell’irrimediabile perdita dell’armonia
tra uomo e cosmo, spingendo tale consapevolezza fino a un punto di non
ritorno. Ogni residuo di realismo viene completamente dismesso, la
natura e i colori esistono in funzione di una percezione interiore,
ogni cosa diventa specchio dell’anima. Tutto si riferisce alla
perdita di equilibrio, dalle linee che ondeggiano pericolosamente, sul
punto di essere quasi risucchiate da un vortice, al ponte che sembra
scivolare verso l’osservatore. La raffigurazione diventa emblema
del dolore universale. La creatura che si volta in primo piano,sbarra
gli occhi e porta le mani alle orecchie per non udire un urlo che
è al contempo suo e del mondo circostante, è
l’immagine di ogni essere umano, senza sesso, senza razza, senza
età, ridotto ai minimi termini tanto, che il corpo stesso
ondeggia. La forza della visione è potenziata dalla scelta di
far tagliare l’inquadratura dal margine inferiore del supporto,
annullando così ogni mediazione tra il mondo dipinto e quello
reale. |
Pubertà: 1893, olio su tela, cm 149x112, Oslo, Munch-museet. |
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Il dipinto rappresenta la
scoperta della sessualità nell’adolescenza, ovvero
l’inizio della pulsione che ha per Munch lo stesso potere di
distruzione della morte. L’ambientazione si riduce a un letto
spoglio, che acquista la consistenza di una superficie dura e fredda,
sul quale una giovane siede nuda: il pavimento e la parete di fondo
sono scabri e volutamente non finiti, privando così la stanza di
qualsiasi senso di accoglienza e famigliarità. La giovane
età della protagonista è evidente nel viso infantile,
così come nelle forme acerbe del corpo. Lo sguardo, velato di un
vago sentore di malinconia, è fisso nel vuoto, mentre il volto
è illuminato da una luce gialla, artificiale, che tende a
trasformarlo in una maschera. La ragazza incrocia le mani tra le
ginocchia, coprendo la fonte del suo turbamento. La sua ombra si
allunga sul letto, ingigantendosi a dismisura dietro di lei. La macchia
scura sul muro si trasforma così in una presenza minacciosa, i
cui significati simbolici si moltiplicano. Essa allude alla rivelazione
dell’angoscia esistenziale che si accompagna al risveglio dei
sensi, al destino tragico che incombe inevitabilmente, secondo Munch,
su chi ama, ma anche al potere terribile e nefasto che il pittore
attribuisce a ogni donna. Munch ne mostra il lato oscuro, privandola di
ogni incanto. |
La bambina malata: 1896, olio su tela, cm 121,5x118,5, Goteborg, Konstmuseum. |
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I colori sono intensi e la scena
è poco rarefatta, la superficie appare graffiata, sofferente
essa stessa, gli occhi stanchi, la bocca della sorella tremante. Le
linee verticali richiamano le ciglia di Munch, che avevano influenzato
la visione, e l’impatto emotivo del dipinto è altissimo.
Le due donne, sebbene unite dall’incontro delle mani, appaiono
chiuse in un dolore personale e incomunicabile, segnato dalla
consapevolezza dell’approssimarsi della morte. |
La Roulette: 1892, olio su tela, cm 75,5x115,5, Oslo,
Munch-museet.
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È rappresentato in primo piano, di schiena e in profilo
perduto, un giovane intento a studiare una tabella: le linee del suo volto sono
indistinguibili e l’uomo appare completamente assorbito dal gioco come gli
altri scommettitori assembrati intorno al croupier. Sono riuniti intorno al
tavolo verde che sembra calamitare, risucchiare l’attenzione degli astanti. Il
centro della rappresentazione non è la ruota in movimento della roulette, bensì
il tappeto con le puntate, illuminato dalla lampada verde. Il mondo del Casino
diventa un frenetico caleidoscopio e la scelta di tagliare “a vivo” le figure,
interrotte dal termine della tela, ha l’effetto di comprimere lo spazio. La scena
appare eccitata e contemporaneamente soffocante, volti abiti cappelli si
susseguono anonimi e contemporaneamente ansiosi. L’artista adotta una
pennellata fluida e rapida, che restituisce l’atmosfera surriscaldata della
sala.
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Malinconia: 1892, olio su tela, cm 64x96, Oslo,
Nasjonalgalleriet.
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Il dipinto prende spunto da una circostanza
autobiografica. Le tre figure visibili in lontananza e la barca alla rada
derivano dalla realtà. Munch raccontava come la donna lo avesse fatto ripensare
una relazione ormai conclusa. Nel dipinto la sensazione è affidata all’accordo
cromatico e alle linee ondulate del paesaggio, ma, più ancora,
all’atteggiamento del giovane raffigurato in primissimo piano, rivolto
all’esterno della scena. Non ha i tratti di Munch: pur se legata a
un’esperienza personale, infatti, la tela diventa il simbolo universale della
malinconia, intesa come emozione comune a tutti gli esseri umani. Il paesaggio
che si allarga alle sue spalle sembra materializzarne i pensieri, costituire
una visione puramente interiore.
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La morte nella stanza della malata: 1893, olio su tela,
cm 136x160, Oslo, Munch-museet.
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Il dipinto si riferisce alla scomparsa della sorella
maggiore Sophie, avvenuta nel 1877: Sophie, di cui si intravede solo un
braccio, è nascosta dallo schienale della sedia rivolta verso il muro, accudita
da Karen Bjølstad, la zia che aveva assistito i bambini Munch dopo la morte
della madre; il padre piega il volto sulle mani giunte; il fratello Andreas –
che morirà di polmonite nel 1895 – si appoggia al muro sostenendosi con una
mano; in primo piano è seduta Laura, mentre Inger, rivolge allo spettatore uno
sguardo fisso, reso assente dal dolore; Edvard, infine, è alle sue spalle,
girato verso la sorella morente. Protagonista del dipinto è la morte. È
l’evento psicologico, piuttosto che quello fisico, a essere rappresentato. Se
si eccettua la figura di Inger, la quale, attraverso il viso scavato e gli
occhi arrossati dal pianto, stabilisce un contatto con l’osservatore, i
personaggi sono senza volto, ridotti a ombre di loro stessi. Al pittore non
interessa la narrazione della scomparsa di Sophie, ma la descrizione dello
stato di prostrazione e solitudine dei singoli membri della famiglia. Il dolore
non gli accomuna bensì li distanzia, ognuno è chiuso nel proprio cordoglio e da
esso svuotato, annientato. Anche l’arredamento è ridotto ai minimi termini e la
disperazione trova un’eco nelle grandi superfici vuote del pavimento e della
parete di fondo. Significativamente, le diverse figure non sono rappresentate
all’età che avevano all’epoca dell’avvenimento, ma a quella del 1893, data di
esecuzione del dipinto. In tal modo il dramma si consuma al presente e la
famiglia appare marchiata per sempre dalla morte di Sophie.
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Notte a Saint-Colud: 1893, pastello su tela, cm
78,5x73,5, Oslo, collezione privata.
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Il dipinto rievoca lo stato d’animo di profonda
prostrazione di Munch, appreso della morte del padre. La scena è ambientata
nell’alloggio del pittore a Saint-Cloud, un sobborgo sulle rive della Senna.
L’occhio dell’osservatore pare addentrarsi in un mondo privato e spiare la
solitudine malinconica dell’uomo in ombra, che guarda verso la Senna. La
finestra proietta a terra un’enorme croce, motivo evidentemente simbolico.
L’atmosfera malinconica è accentuata dalla riduzione quasi totale della
tavolozza alla bicromia azzurro-marrone. L’artista aveva scritto nel “Manifesto
di Saint-Cloud”: non ci saranno più scene di interni con prsone che leggono e
donne che lavorano a maglia. Si dipingeranno esseri viventi che hanno
respirato, sentito, sofferto e amato”.
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La Voce: 1893, olio su tela, cm 90x120, Oslo,
Munch-museet.
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Si tratta di un dipinto simbolico. In una luminosa notte
di luna piena due barche galleggiano sul mare; davanti all’acqua si stendono
una striscia di spiaggia e un bosco; tra gli alberi una giovane donna guarda
verso l’osservatore: il volto e gli occhi sono completamente in ombra e i
capelli lunghi scendono sulle spalle. La ragazza non è reale, bensì incarna la
tentazione erotica; il suo corpo proteso in avanti è la Voce che chiama, che
attira verso il buio del bosco. Munch descriveva l’amore come una lotta, in cui
l’uomo finiva per soccombere al potere della seduzione femminile e avvertiva
che gli occhi invisibili della donna comunicano il pericolo di morte. La
ragazza è vestita e la carica sensuale resta implicita, affidata interamente al
senso di attesa e di tensione silenziosa, al contrasto tra le forme sinuose del
corpo e la verticalità dei tronchi, cui fanno eco l’andamento ondulato della
spiaggia e il riflesso della luna sull’acqua – striature luminose che creano
uno stacco visivo, isolando il primo piano. L’opera fa parte del “Fregio della
vita”, in cui Munch avrebbe riunito i suoi quadri principali, così da
illustrare il travaglio dell’amore, la paura di vivere e la morte, ovvero le
situazioni e le emozioni che attraversano l’esistenza di ognuno.
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Le Mani: 1893, olio su tavola, cm 91x77, Oslo,
Munch-museet.
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La donna è ora rappresentata in tutto il suo potere. Ogni
ambientazione è soppressa e l’artista mette in scena una raffigurazione
esclusivamente psicologica. La figura non ha tratti individualizzati, ma
simboleggia l’essenza della femminilità munchiana: le labbra rosse, gli occhi
in cui si addensa l’ombra, il corpo seminudo mostrato nell’offerta della
sensualità. La componente erotica è accentuata dalla posizione delle braccia,
incrociate dietro la testa, e dal vestito che scivola sui fianchi, che lascia
intravedere senza mostrare completamente. Il pittore sceglie una cromia scura e
una resa pittorica cruda, quasi brutale; il supporto non viene preparato e
Munch non lo dipinge completamente. Dai margini del quadro si protendono verso
il corpo della donna enormi mani che sembrano provenire direttamente dal nostro
spazio.
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Vampiro: 1893-1894, olio su tela, cm 91x109, Oslo,
Munch-museet.
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Il
dipinto trasforma un momento di tenerezza in uno di terrore. Non soltanto,
infatti, l’abbraccio della coppia è pieno di disperazione – nell’ambiente
spoglio, nell’annullamento dei tratti dei volti, ma anche nella contrapposizione
tra la donna nuda e l’uomo vestito; diventa una scena di morte. La protagonista
diventa un demone che getta una maledizione sulla vita del compagno,
uccidendolo a poco a poco. Nella tavolozza, ristretta a poche sfumature di neri
e bruni, il rosa del braccio nudo e le ciocche rosse dei capelli acquistano
eccezionale evidenza, accentrando l’attenzione sulla figura femminile. In
un’immagine essenziale quanto pregnante l’artista ha insomma dato forma al
binomio greco di Eros e Thanatos, Amore e Morte, facendo però coincidere
quest’ultima con la donna stessa, che diventa l’agente della distruzione.
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